Scatta oggi una nuova rubrica del nostro sito internet: On the Bench. Abbiamo parlato con tutti i coach del nostro settore giovanile chiedendo loro aneddoti e curiosità sulla loro passione per la palla a spicchi. Si parte con il capitolo dedicato al responsabile Sandro Pugliese, biancorosso dal lontano 1989.
Come ti sei avvicinato al mondo della pallacanestro?
“Ero davvero piccolo, il mio primo contatto con il mondo del minibasket è stato a 6 anni. Insieme ad altri compagni di classe della 1^Elementare ci siamo iscritti al corso, alcuni di questi prima sono stati compagni di squadra e poi miei giocatori da allenatore per una vita; con Massimo Nigrone e Mattia Picco abbiamo fatto basket insieme fino a superare i 30 anni. Era il 1989, il quartiere di Milano3 era nato da poco e c’era questa piccola società di genitori appassionati che muoveva i primi passi. Per noi bimbi è stato amore a prima vista, eravamo sempre in palestra”.
Come allenatore quali sono i modelli a cui ti ispiri?
“Per fortuna nel basket, come nella vita, il mondo è in continua evoluzione. Come spesso succede all’inizio della carriera si è molto “integralisti” e si cerca di inserire i giocatori all’interno del proprio modello di gioco. Poi, piano piano, si scopre che invece è il modello di gioco a doversi spesso mettere a disposizione dei giocatori plasmandolo per essere il più funzionale possibile alle loro caratteristiche.
Da ragazzo andavo matto per il basket ultra-lento di Bozidar Maljkovic con il quale vinse 4 Coppe dei Campioni con Spalato, Limoges e Panathinaikos, ma sicuramente è un modello non più attuale, mentre adesso, al di là dell’ovvia ammirazione per Zelimir Obradovic (se vinci 9 volte l’Eurolega sei un mago), posso dire che il basket di Sarunas Jasikevicius allo Zalgiris Kaunas mi sembra un buon modello a cui ispirarmi perché eleva il rendimento dei giocatori mettendoli a loro agio.”
Cosa significa per te il Milano3 Basket?
“Sicuramente vale davvero tanto per me. Ho svolto tutti i ruoli in questa società, ci sono dentro da quando ho 6 anni (e ora ne ho 35) e dedico tra attività di coaching e dirigenziale almeno 10 ore al giorno. Mi ha fatto raggiungere dei risultati incredibili sia da giocatore che da allenatore. Pensare di aver vinto uno scudetto in campo e aver fatto tante finali nazionali in panchina con una piccola società di un paese da neanche 10.000 abitanti è semplicemente un sogno che si avvera e che si rinnova ogni giorno sempre verso nuovi orizzonti. Grazie al Milano3 Basket sono riuscito a far diventare la mia passione il mio lavoro, non potevo chiedere di più.”
Qual é stato il momento più emozionante e quello più brutto nella tua carriera da allenatore?
“In realtà ogni vittoria è emozionante perché è l’adrenalina che ti dà che fa la differenza, ma sceglo due momenti significativi: la vittoria in Gara 4 di finale di C Gold con Olginate nel 2017 e la vittoria del campionato U19 Elite nel 2015. La prima rappresenta il momento più alto che abbiamo vissuto al Milano3 Basket, un palazzetto stracolmo, un paese intero, il mio paese, a sostenere la nostra squadra verso un sogno che prima o poi vogliamo far diventare realtà (la promozione in Serie B, ndr). Una gara di un’intensità mostruosa, vincemmo di 25 punti, ma anche intrisa di emozioni fin dall’arrivo al palazzetto. Ho avuto la fortuna di fare 5 finali nazionali con le nostre squadre, ma per le giovanili scelgo un momento speciale, perché quella vittoria contro Legnano fu la chiusura del cerchio perfetta del cammino con i ragazzi del ’96 che allenai da U13 a U19. Poi l’emozione di recuperare dal -14 e vincere al supplementare con due tiri liberi a 10” dalla fine fa il resto.
Per fortuna i momenti brutti sono davvero pochi, forse quello più difficile fu nel 2011. Volevamo vincere la C2, ma eravamo partiti davvero malissimo. Ero in difficoltà, ci siamo guardati tutti in faccia, abbiamo vinto 17 partite in fila e vinto il campionato”.
Cosa significa essere allenatore nelle cosiddette “minors”?
“E’ un mondo davvero particolare rispetto al basket professionistico perché devi tenere conto che per i tuoi giocatori il basket è soprattutto un divertimento e non un lavoro, anche se cercano sempre di farlo nel modo migliore possibile. La mia fortuna è quella di aver incontrato in questi 11 anni di panchina a Milano3 una serie di ragazzi speciali che intendono il basket “minors” esattamente come lo intendo io. Così è stato certamente più facile. Spero lo sia stato anche per loro.”
Quali sono gli insegnamenti, aldilà della tecnica, che vuoi trasmettere ai tuoi ragazzi?
“Questo vale soprattutto per le giovanili, mi piacerebbe che i nostri ragazzi capissero che lo sport può essere una metafora della loro vita futura, che apprendano che se non ti impegni non hai successo, ma anche che se sbagli puoi riscattarti se la interpreti nel giusto modo. Però una cosa è davvero importante, bisogna sapersi organizzare, se uno vuole davvero può raggiungere risultati eccellenti a scuola e nello sport. Scegliere l’una o l’altra cosa non aiuterà nella vita da adulti quando gli impegni da fronteggiare saranno mille.”
Hai mai pensato di farlo a livello professionistico?
“Pensato sicuramente, ma la risposta, per ora, è sempre stata la stessa: non ha senso rischiare di cancellare tutto quello che ho costruito a Milano3 per una chimera improbabile. Forse 20 anni fa sarebbe stato diverso, ora il mondo del basket “pro” è troppo instabile economicamente per lasciare tutte le mie attività visto che non faccio solo l’allenatore.”
La differenza più evidente tra allenatore e giocatore?
“E’ proprio un mondo totalmente diverso. Da giocatore ti diverti, da allenatore ti diverti lo stesso, ma soffri. Sembra banale a dirsi, ma spesso quel che si dice è vero: fare l’allenatore è totalizzante, non puoi staccare la spina quando finisce l’allenamento o la partita, sei sempre alla ricerca di un’idea o di una soluzione nuova, pensi sempre cosa si potrebbe fare meglio e magari non ti godi neanche il momento della vittoria perché la tua squadra ha fatto solo il suo dovere rispetto a quello per cui è stata preparata. Però non è che lo facciamo perché siamo masochisti, fare il coach è bellissimo anche proprio per le stesse ragioni che ho citato, perché poter organizzare un gruppo, dare il proprio marchio, indirizzare nel modo giusto la crescita dei giocatori è davvero stimolante.”
Lorenzo Lubrano